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27/03/21

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Una storia di condoni

La storia d’Italia, ancor prima che sulla penisola sorgesse una nazione definibile a tutti gli effetti Italia, è una storia fatta di sanatorie e di condoni, di provvedimenti più o meno emergenziali studiati per permettere allo Stato di far pace con i suoi contribuenti e di mettere fine a contenziosi tributari infiniti. 

 

Secondo il giornalista del Corriere della Sera Paolo Conti, il massimo condonatore della storia – d’Italia e d’Europa – fu l’imperatore Adriano, che nell’anno 118 dopo Cristo riuscì a convincere il Senato di Roma della necessità di non riscuotere ben sedici anni di tributi arretrati. In una notte sola, Adriano distrusse ogni documento che testimoniasse il passivo e si rese autore di un condono pari a 900 milioni di sesterzi, l’equivalente di un intero anno di tasse raccolte nell’intero Impero Romano.

 

In tempi più recenti, l’Italia repubblicana si è servita dello strumento del condono con la riforma tributaria operata nel 1973 dal quarto governo Rumor – in quel caso si decise di applicare una riduzione del 40% sulla differenza tra quanto dichiarato e quanto accertato dal Fisco – e poi ancora nel 1982 con il governo Spadolini, nel 1991 con il governo Andreotti e nel 2003, a seguito di un provvedimento approvato dal secondo governo Berlusconi. In mezzo, ci sono stati un bel po’ di interventi minori, finalizzati alla regolarizzazione dei capitali esteri  o alla normalizzazione di abusi edilizi. Tra le situazioni sanabili attraverso un condono, infatti, non c’è solo il mancato pagamento delle imposte o la dichiarazione parziale dei redditi, ma anche la messa in regola di abusi edilizi e il rientro di capitali non dichiarati dall’estero.

 

Negli ultimi giorni il tema del condono è tornato prepotentemente alla ribalta, dopo le discussioni interne alla maggioranza circa l’opportunità di varare un provvedimento che intervenga per cancellare le cartelle esattoriali fino a un massimo di 5 mila euro, relative a imposte non pagate tra il 2000 e il 2010. Il decreto-legge è stato approvato dal Consiglio dei Ministri il 23 marzo scorso e stralcerà un totale di 16 milioni di vertenze riguardanti cittadini italiani con una soglia di reddito fino a 30 mila euro annui, ma non ha mancato di scatenare polemiche. 

 

Da una parte, c’è chi mette in discussione la bontà di un’operazione studiata per abbuonare «somme molto alte» – come la sottosegretaria all’Economia Maria Cecilia Guerra, di Liberi e Uguali – dall’altra chi spinge per mettere in campo una misura che aiuterebbe imprese e famiglie in difficoltà. 


In generale, sul tema del condono si affrontano da tempo due opposte visioni del mondo, con diverse idee sulla rigidità fiscale e diverse soluzioni per combattere l’evasione.

Due scuole di pensiero che proveremo a sintetizzare per voi nella tredicesima puntata di Prisma, la newsletter di Torcha che come ogni settimana si occuperà di presentare un tema di attualità in tutte le sue sfaccettature.

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Bentornati e buona lettura!

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Nel caso fossi di fretta

  • Lo strumento del condono frutta al Fisco un discreto ritorno economico sul medio-lungo termine, dovuto al recupero di almeno una parte dei debiti, altrimenti irrecuperabili

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  • Attraverso il condono lo Stato rinuncia a riscuotere alcune cartelle esattoriali, con conseguenti risparmi dovuti al funzionamento dell’agenzia di riscossione

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  • Soprattutto, il condono è una misura utilizzabile in momenti di crisi per venire incontro a famiglie e imprese in difficoltà

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  • Il condono resta tuttavia uno strumento iniquo, utilizzabile solo da una parte della popolazione, quella che ha infranto le regole

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  • Ogni nuovo condono crea poi l’aspettativa di condoni futuri, aumentando l’evasione

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  • Proprio per questo il condono ha anche dei costi per lo stato, che hanno a che fare con la previsione di nuova evasione, ma anche con la burocrazia e con la definitiva rinuncia agli introiti della riscossione

Matteo Salvini (segretario della Lega):

«Per tornare a correre l’Italia deve condonare tutto quello che abbiamo ereditato dal passato. Gli 8 milioni di cartelle esattoriali vengono cancellate. Faccio un esempio: se uno è in difficoltà con una rata del mutuo, ed era in difficoltà prima del virus, dopo tre mesi di virus se gli arriva la cartella esattoriale da 5 mila euro come fa a pagarla? Non avrebbe più senso che lo Stato ti chiedesse: dammi il 20%, la chiudiamo, io incasso e tu lavori?»

Pietro Grasso (senatore della Repubblica):

«Mi ha impressionato la “pacificazione fiscale”, questa forma di condono che cerca di cancellare il passato illegale. Il condono significa mettere un bollo sull’illegalità per avere una parte di profitto che qualcuno deve. Per me è qualcosa contrario al mio modo di vedere le regole, il rispetto e incentiva l’illegalità. È un fatto anche etico e morale che di sicuro non aiuta la ricostruzione di un Paese».

Interviste
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La nostra intervista

Per capire meglio le dinamiche di un condono e i suoi effetti sulla macchina dello Stato abbiamo contattato Daniele Sedda, ricercatore in scienze dell’amministrazione e teoria dello stato.

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Sedda, quali sono i pro e i contro della decisione di ricorrere a misure condonatorie?

Daniele Sedda
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Condono: perché sì

Il primo argomento di chi propone misure volte al condono è anche il più scontato e ha a che fare con gli introiti generati da questo tipo di provvedimenti. Può sembrare un controsenso, ma abbuonare una parte dei debiti contratti dai contribuenti è una mossa che frutta allo Stato un discreto ritorno economico.

 

Questo accade in primo luogo perché la maggior parte delle cartelle esattoriali – il 91%, secondo i dati forniti dal direttore dell'Agenzia delle Entrate Ernesto Maria Ruffini in audizione alla Camera – risulta inesigibile, ovvero lo Stato non vedrà mai i soldi che chiede ai suoi contribuenti. Tra i crediti che non possono essere riscossi, oltre il 15% fa capo a soggetti falliti, il 13% a persone decedute o ditte non più esistenti, il 13% a nullatenenti e il 45% a contribuenti già sottoposti senza successo ad azioni di recupero credito. 

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Ciò vuol dire che dei 987 miliardi di crediti registrati al 1 gennaio 2020, quelli realmente recuperabili sono meno di 100. Il condono, in questo senso, permetterebbe di “sanare” il contenzioso attraverso il pagamento di almeno una parte del debito, entrate parziali, ma che lo Stato non avrebbe mai potuto registrare altrimenti (non è il caso dell’ultimo intervento voluto dal governo Draghi, che invece stralcia del tutto le vertenze designate dal provvedimento).

 

La seconda ragione è ancora una volta di natura economica ed è strettamente collegata alla prima. La possibilità di accertare l’eventuale infrazione nella dichiarazione dei redditi ha dei termini di prescrizione – che nel 2016 sono stati estesi a un massimo di sette anni – e dei costi, dal momento che i crediti vengono affidati a un ente denominato Agenzia delle Entrate Riscossione (AdER), un tempo nota come Equitalia. 

 

L’intero processo di recupero crediti non è insomma un’azione indolore per lo Stato italiano, a maggior ragione perché questo si finanzia attraverso i cosiddetti “oneri di riscossione", ovvero una percentuale – variabile tra il 3% e il 6% delle somme recuperate – a carico dell’insolvente. La misura condonatoria permette dunque allo Stato di svuotare il magazzino dei crediti affidati all’AdER, ripulendolo da tutte quelle cartelle inesigibili che richiedono operazioni di riscossione (e dunque spese a carico dello Stato) senza la possibilità di rifarsi sul debitore.

 

L’ultima freccia all’arco di chi spinge per il condono è piuttosto popolare presso l’elettorato ed è anche quella più utilizzata in chiave comunicativa dai governi che mettono in campo provvedimenti di questo tipo: annullare le pendenze tra il Fisco e il cittadino è un modo per venire incontro a famiglie e imprese in difficoltà. Più volte abbiamo sentito la politica parlare della cosiddetta “evasione di sopravvivenza” per descrivere quella categoria di contribuenti costretti a scegliere tra versare le tasse e acquistare beni di prima necessità o, nel caso degli imprenditori, chiudere bottega. Tale fattispecie è stata riconosciuta dalla stessa Cassazione, con una storica sentenza del gennaio 2016 che aveva annullato il sequestro dei beni di un imprenditore non in regola con i pagamenti dell’Iva. 

 

In quest’ottica, non solo il condono rappresenterebbe una boccata d’ossigeno per persone in evidente stato di difficoltà – a patto che questo contenga criteri riferiti al reddito – ma potrebbe persino diventare un buon affare per lo Stato. A spiegarlo è l’esponente socialista Rino Formica, uno dei principali protagonisti della stagione condonatoria degli anni Ottanta, secondo cui il condono «ha anche il pregio di produrre una lievitazione spontanea nelle dichiarazioni successive». Secondo i fautori del condono, ciò avverrebbe per motivi di carattere psicologico (lo scampato pericolo spinge i contribuenti a mettersi in regola e a non rischiare nuovi accertamenti), ma soprattutto per un motivo molto pratico: i soldi non versati al Fisco possono essere utilizzati dagli imprenditori per nuovi investimenti, che finiscono per generare nuova ricchezza. 

 

Questa affermazione, come vedremo, è vera solo a metà. Come ha sottolineato nel 2005 una ricerca condotta dall’Università di San Gallo, in Svizzera, il ricorso ripetuto a misure condonatorie può minare la tax compliance, ovvero l’adesione spontanea del contribuente agli oneri fiscali.  

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Condono: perché no

Naturalmente non mancano neanche le ragioni per dire no a un provvedimento che cancella i contenziosi fiscali del passato. La prima e la più scontata è che si tratta di una misura tendenzialmente iniqua.

 

Tutte le misure condonatorie partono infatti dal presupposto che sia avvenuta un’evasione, ovvero che qualcuno abbia messo in atto un comportamento illegittimo al fine evitare il prelievo tributario. Quello che spesso non si osserva è che invece non tutti i contribuenti possono effettivamente eludere il Fisco e beneficiare dunque del successivo condono. I redditi da lavoro dipendente, così come gli stipendi e le pensioni, vengono infatti tassati alla fonte e ciò vuol dire che la somma viene percepita al netto delle imposte dovute allo Stato. Certo, anche il pensionato può decidere di non versare il bollo auto – una delle eventualità sanabili con prossimo condono del governo Draghi – ma è innegabile che lo strumento del condono finisca per estromettere un’intera fascia di popolazione, quella che ha giocato seguendo le regole. 

 

Il secondo motivo per non auspicare il ricorso ai condoni è altrettanto evidente e riguarda la creazione di un precedente pericoloso. «Il messaggio che viene inviato è che chi ha rispettato le regole è uno sciocco» ha spiegato il 23 marzo scorso alla trasmissione DiMartedì il magistrato Piercamillo Davigo, «non aver pagato per tempo significa non dover pagare più». Secondo Davigo, insomma, il principale problema del condono è il suo effetto su eventuali pendenze future, che il contribuente preferirà posticipare (o non pagare affatto) attendendo il prossimo condono. 

 

E le misure varate dai governi italiani, in questo senso, sono piuttosto frequenti: negli ultimi sette anni gli evasori hanno potuto beneficiare di due sconti sul rientro dei capitali dall’estero non dichiarati (2014 e 2016), di tre tranche di rottamazione delle cartelle (2016, 2017, 2019), di un saldo e stralcio e di una cancellazione delle mini-cartelle (2019). Il segnale lanciato è che pagare tutto e subito non conviene, secondo i critici della misura.

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L’ultimo tasto dolente del condono riguarda i suoi costi. Se questo genere di provvedimenti può portare ad un aumento del gettito erariale sul medio-lungo termine, lo strumento presenta dei costi importanti nell’immediato. Come spiegava nel 2011 la sottosegretaria all’Economia Maria Cecilia Guerra, l’eventualità di un condono ha sempre dei costi operativi per l’amministrazione finanziaria, riguardanti «la predisposizione di circolari, risoluzioni, modulistica, tecniche di trasmissione dei dati, nonché l’assistenza ai contribuenti interessati».  

 

A queste spese vanno a sommarsi i costi per il mancato recupero dell’evasione (i soldi in meno per le casse dello stato, anche se come abbiamo visto la maggior parte dei debiti potrebbe non essere recuperabile) e quelli per la minore tax compliance. Questo punto è la diretta conseguenza del precedente di cui parlavamo pocanzi, come spiega ancora Guerra: «Quando all’ultimo condono se ne aggiungono altri, a distanza di poco tempo l’uno dall’altro, si generano aspettative di nuovi condoni nel futuro. Ciò alimenta la tendenza all’evasione». L’aspettativa di nuovi condoni comporta insomma costi diretti per lo Stato italiano, costi che non è sempre facile quantificare.

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In conclusione

Quella di ricorrere al condono è una mossa con molti precedenti nella storia d’Italia, ma che ha dei pro e dei contro piuttosto definiti. Fare pace con i propri cittadini è una mossa che può fruttare allo Stato un discreto ritorno economico, derivante dalle minori spese di riscossione (dal momento che il 91% delle cartelle potrebbero essere legate a debiti irrecuperabili), ma anche dal recupero di una parte del dovuto, come accade nel caso dello sconto sul rientro dei capitali detenuti illegalmente all’estero.  

 

Dall’altra parte, le misure condonatorie hanno dei costi nell’immediato, che hanno a che fare con la burocrazia necessaria e con la definitiva rinuncia agli introiti della riscossione. C’è poi il costo per la minore tax compliance, ovvero quello dovuto alle aspettative di nuovi condoni nel futuro, che potrebbe rivelarsi un boomerang per la macchina dello Stato.

 

In definitiva, il condono è uno strumento che può essere utilizzato in momenti di particolare crisi per alleviare le sofferenze di famiglie e imprese in difficoltà, ma il suo abuso ha delle importanti controindicazioni, economiche e in materia di equità sociale. 

Conclusione
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