

06/03/21



Professione: politica
Nell’ultimo decennio la politica ha vissuto un’importante crisi di fiducia, uno scetticismo diffuso nei confronti degli strumenti e dei riti della democrazia rappresentativa che ha travolto i Paesi occidentali, trasformandosi nel carburante per l’ascesa dei populismi. È come se, all’improvviso, i meccanismi decisionali validi da oltre un secolo avessero smesso di funzionare, producendo uno scollamento sempre più netto tra elettorato e classe dirigente.
Per questo motivo gli anni Dieci del Duemila sono stati segnati da movimenti di piazza – Occupy Wall Street negli Stati Uniti, il V-Day che avrebbe dato vita al Movimento 5 Stelle in Italia, gli Indignados in Spagna – da un crescente astensionismo e da fenomeni politici ancora oggi molto difficili da inquadrare, come quello che nel 2016 ha portato all’elezione di Donald Trump. Al momento è impossibile stabilire se quell’ondata di malcontento sia definitivamente tramontata, ma di certo l’avvento dell’emergenza sanitaria ha contribuito a rimettere la politica al centro delle nostre vite.
La funzione legislativa è oggi più che mai fondamentale per mitigare gli effetti della pandemia e, sulla scia di quella necessità, la politica italiana ha fatto fronte comune, dando vita a un governo di grande coalizione presieduto dall’ex numero uno della Banca Centrale Europea Mario Draghi. Ma c’è una lezione che l’ultimo decennio di anti-politica ci ha lasciato, ovvero che ogni potere è accompagnato dalla sua buona dose di responsabilità. Così, negli ultimi giorni siamo tornati a parlare seriamente di politica, cercando di stabilire quali siano i confini alla sua attività.
Il dibattito è nato in seguito a un articolo del quotidiano Domani, che il 26 gennaio scorso aveva documentato l’attività di consulenza tenuta da Matteo Renzi presso un organismo controllato dal principe ereditario saudita Mohammad bin Salman Al Sa'ud, lo stesso che secondo un rapporto dell’intelligence americana avrebbe dato il via libera all’uccisione del giornalista Jamal Khashoggi. La partecipazione (retribuita) di Renzi al board della famiglia saudita non viola alcuna legge o regolamento interno al Parlamento, ma solleva diverse questioni di opportunità: è giusto che un senatore della Repubblica intrattenga rapporti personali con uno Stato estero? E per evitare situazioni di questo tipo, non sarebbe forse meglio che i rappresentanti eletti fossero pagati per occuparsi solo ed esclusivamente di politica, come unica professione?

Insomma, come avrete intuito la decima puntata di Prisma sarà dedicata alla politica e al ruolo che dovrebbe ricoprire nelle nostre società. È come sempre un tema complesso e ricco di sfaccettature, ma non è forse questo il bello?
Benvenuti e godetevi la lettura!

Nel caso fossi di fretta
-
Attualmente i politici italiani non sono politici di professione, possono cioè intraprendere una carriera parallela e avere una seconda entrata
-
Chi spinge per il professionismo in politica lo fa soprattutto per salvaguardare l’indipendenza, perché lavorare per aziende private e Paesi esteri rischierebbe di influenzare l’attività legislativa
-
Inoltre, la politica di professione porterebbe alla rinascita di una competenza strettamente politica, da coltivare per tutta la vita senza altre distrazioni
-
Chi si oppone al professionismo ne fa soprattutto una questione di inclusività: tutti devono poter accedere al Parlamento e non solo pochi notabili che praticano la professione
-
C’è poi un problema di selezione della classe dirigente, dal momento che senza la possibilità di una carriera parallela le menti migliori del Paese sceglierebbero di lavorare nel settore privato
Paolo Cirino Pomicino (ex deputato della Repubblica italiana):
«Il vitalizio parlamentare fu istituito per garantire che la funzione legislativa fosse totalmente libera da ogni preoccupazione, compresa la preoccupazione del futuro. Nel passato un deputato stava almeno 15-20 anni in Parlamento e la libertà del legislatore era anche la libertà del bisogno futuro. Io ero un aiuto ospedaliero, ho cessato di fare la mia attività professionale privata perché ero 5 giorni in Parlamento o nel collegio elettorale. Non è un privilegio, ma il riconoscimento della più alta funzione che esiste all’interno di un sistema democratico: l’attività legislativa e di governo».
Enrico Letta (ex presidente del Consiglio italiano):
«Impegnarsi in politica non è un optional, è fondamentale per sé stessi e per la propria comunità. Impegnarsi in politica in modo moderno e responsabile vuol dire non fare i politici di professione, ma avendo una professione e impegnandosi in politica. Se sei un politico di professione alla fine non sei in grado di avere grandi libertà nelle scelte che devi fare perché pensi a un elemento che ti condiziona nella tua vita personale. Viceversa, se fai la scelta che è quella di dire “faccio politica, mi impegno, se non sono d’accordo torno al mio lavoro” è secondo me una delle grandi libertà fondamentali che ti rende credibile».


La nostra intervista
Per contestualizzare al meglio la questione del professionismo politico abbiamo chiesto l’aiuto di Anna Marzano, consulente politica ed esperta di comunicazione.

Marzano, perché quella della “politica di professione” è un’attività così bistrattata?
Politica di professione: perché sì
Della politica come professione si era occupato già attorno agli anni Venti del Novecento il sociologo tedesco Max Weber, che in un saggio intitolato proprio “La politica come professione” aveva teorizzato due modalità per svolgere questa attività in modo continuativo e fruttuoso: la prima è quella che Weber definisce «von die Politik» – ovvero «vivere di politica» – e consiste nell’esercitare la politica come principale fonte di reddito, opposta alla «für die Politik» («vivere per la politica»), che semplificando potremmo descrivere come l’attività politica svolta per pura passione.
I fautori della politica come professione puntano tutto sull’indipendenza che questa modalità assicurerebbe a chi si occupa della vita del Paese. Se un politico è pagato per fare solo il politico, è la tesi, allora questi non potrà essere influenzato dagli altri attori della vita pubblica (aziende, lobby, nazioni estere), potenzialmente disposti a tutto pur di assicurarsi i servizi di una personalità che ricopre ruoli decisionali di alto livello. Questa è anche l’idea che animava i padri costituenti, che all’articolo 69 della Costituzione hanno fissato una «indennità prevista dalla legge», ovvero un pagamento corrisposto per l’attività legislativa al fine di consentire al parlamentare di svolgere con piena dedizione la sua attività.
In questo senso calza a pennello non solo l’esempio di Matteo Renzi, che affianca alla sua attività politica quella di conferenziere e di consulente per un istituto vicino al regime saudita, ma anche la storia di Marco Minniti, che nei giorni scorsi ha lasciato la politica per guidare la fondazione di Leonardo, società partecipata dallo Stato che si occupa di difesa e sicurezza. Le strade di Minniti e Leonardo si erano già incrociate per via politica, quando l’ex esponente del Pd ricopriva il ruolo di ministro dell’Interno.
Il secondo argomento di chi vorrebbe che la politica fosse una professione ha a che fare con la competenza. Oggi non esistono dei percorsi universitari in grado di preparare alla vita politica, ma in passato le cosiddette “scuole di partito” rappresentavano un punto di passaggio ineludibile per tutti coloro che volessero dedicarsi all’attività. Basti pensare alla Scuola delle Frattocchie per il Partito Comunista – da cui sono passati dirigenti come Togliatti, Longo, Ingrao e Macaluso – o la Camilluccia per la Democrazia Cristiana, fortemente voluta da Amintore Fanfani.
Il punto battuto da chi sogna il ritorno ai professionisti della politica è semplice e anche un po’ nostalgico: ogni percorso universitario forma dei professionisti in un determinato ambito e quelle competenze sono certamente molto utili per legiferare, ma solo dedicando la propria vita (e parte della propria formazione) alla politica sarà possibile essere dei veri politici e fare il bene del Paese. In quest’ottica, lavorare per sopravvivere collateralmente all’attività di politico è considerata una distrazione da quello che è un percorso di formazione continua, quasi una missione.
Politica di professione: perché no
ome abbiamo visto, l’ultimo decennio ha stravolto il concetto stesso di politica e con esso le parole che utilizziamo per descriverla. Per questo motivo “professionista della politica” è diventato nel tempo un termine denigratorio, spesso e volentieri utilizzato dal Movimento 5 Stelle per indicare i suoi avversari politici. Ma il dibattito di cui ci stiamo occupando era già molto attuale prima della recente ondata di anti-politica, tanto che persino un importante membro dell’Assemblea costituente come Pietro Calamandrei diede alle stampe un saggio dal titolo “La politica non è una professione”.
Chi si oppone al professionismo nella politica parte in genere da un presupposto per nulla scontato: pagare delle persone per fare esclusivamente politica finirebbe per creare una “casta” di notabili, allontanando il cittadino comune dalla vita dello Stato, a discapito della rappresentatività. Era questo, in fondo, uno dei punti cardine del primo Movimento 5 Stelle, che con il suo “uno vale uno” intendeva contestare la concentrazione del potere nelle mani di pochi esponenti, scelti dai partiti secondo dinamiche considerate autoreferenzali. «Uno vale uno vuol dire che non ha importanza chi viene candidato o eletto se quella persona fa parte di un gruppo, della comunità del movimento, perché l'elezione, a differenza di quanto avviene nei partiti, non è l'obiettivo ma un mezzo» scriveva nel 2014 il neo insediato gruppo alla Camera del Movimento fondato da Grillo.
Il nodo cruciale della questione riguarda ancora una volta il funzionamento stesso della democrazia rappresentativa e la possibilità per chiunque di entrare in Parlamento come forma estrema di mobilità sociale. Una visione che rifiuta a priori il concetto di “competenza politica”, in favore del diritto a essere rappresentati da pari, ovvero da cittadini comuni con problemi comuni. Come spiegava nel 2018 il professor Salvatore Settis, inoltre, creare politici di professione potrebbe aumentare il rischio che questi siano coinvolti in casi di corruzione, perché «non saprebbero fare nessun mestiere il giorno in cui tornassero a casa» e proverebbero dunque ad assicurarsi la rielezione in ogni modo possibile.
L’ultimo argomento contro la politica come professione è rappresentato invece dalla qualità della classe dirigente. Com’è chiaro, eliminare la possibilità di affiancare un secondo lavoro all’attività politica significa precludere ai parlamentari la possibilità di fare carriera nei rispettivi ambiti lavorativi e, per qualcuno, rinunciare a stipendi potenzialmente più alti offerti da un’azienda privata. Pensiamo al caso di Ignazio Marino, stimato chirurgo prima di diventare sindaco di Roma e oggi vice-presidente esecutivo dell’ospedale universitario di Philadelphia, o a Carlo Calenda, che da europarlamentare guadagna oggi un sesto dell’ultimo stipendio ricevuto da manager, prima di entrare in politica. Il rischio è quello di allontanare dalla politica le menti migliori, attirate dalla possibilità di successo nel proprio campo di formazione.

In conclusione
Attualmente un parlamentare della Repubblica italiana è libero di avere un’entrata secondaria e di prestare dunque i propri servizi ad aziende private e a Paesi stranieri. I politici italiani non sono insomma politici “di professione”, secondo la definizione classica coniata da Max Weber nel 1919.
Chi preme affinché le cose cambino punta tutto sull’indipendenza che i politici potrebbero garantire se si dedicassero solo alla vita pubblica del Paese e sulle maggiori competenze che un percorso finalizzato all’attività politica offrirebbe. Al contrario, chi si oppone al professionismo lo fa per garantire a tutti i cittadini la possibilità di essere eletti (e di essere rappresentati) in Parlamento e per contrastare le eventuali derive corruttive che la carriera politica comporterebbe. Esiste infine un problema di selezione della classe dirigente: se i politici non potessero perseguire una carriera parallela, le menti migliori del Paese sceglierebbero probabilmente di lavorare nel settore privato, più remunerativo e con maggiori possibilità di ascesa.
La scelta, insomma, è tra una politica indipendente e una politica inclusiva, tra la creazione di una competenza strettamente politica e la possibilità di continuare ad attrarre ogni tipo di competenza. Come sempre, non esiste un’opzione migliore di un’altra e molta parte di questa decisione dipende dall’ideale di politica che abbiamo in mente. E voi, da che parte state?

